Nel 2010, a distanza di tredici anni dalla sua nascita in America, non ho ancora esattamente capito cosa sia un blog.
D’altronde, chi mi conosce bene sa che, al pari di Woody Allen, ho un rapporto catastrofico con la tecnologia: se passo sotto ad un lampadario a gocce, si mette a piovere.
Mi si dice che il blog è una sorta di diario online, dove “postare” i propri pensieri, opinioni, riflessioni, considerazioni ed altro.
Mi si dice inoltre che tutto ciò può essere captato, letto, commentato e condiviso da chiunque voglia farlo, in qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi giorno dell’anno e a qualunque ora. Un movimento incredibile, sembrerebbe!

Questo blog sarà quindi un esperimento, oltre che un divertissement.

Se fra qualche mese sarò ancora qui da solo a lucidare l’argenteria in attesa di ospiti, vorrà dire che non ho capito un piffero e non mi resterà che tornare alla mia vecchia, cara “lettera 32”
.



mercoledì 3 novembre 2010

Il bacio di Francesca... (capitolo 3)

“…Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
      la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
 
                                                   
                                       (la Divina Commedia – Inferno, canto V)



  Quanta vibrante intensità in queste parole di Dante, quando racconta il momento in cui tra Paolo e Francesca sbocciò la passione che li portò a rosolarsi nel girone dei lussuriosi, per l’eternità. 
  Paolo e Francesca rappresentano, almeno nell’immaginario collettivo, la coppia degli amanti lussuriosi per eccellenza, che ha solleticato fantasie di intere generazioni dal medioevo ai giorni nostri..

  Sembrerebbe, invece, che i disgraziati non abbiano nemmeno “consumato”.
 
  Pare, infatti, che appena le labbra dei due entrarono in contatto, furono sorpresi dal marito di lei il quale, realizzato cosa stava succedendo e accecato dalla gelosia, sbarellò di brutto.
  A Paolo, com’è immaginabile, prese un coccolone.
  Cercò di salvarsi passando dalla botola che si trovava vicino alla porta, ma si dice che il vestito gli si impigliò in un chiodo, costringendolo a tornare indietro. A questo punto, mentre Giangiotto (marito di lei e fratello di lui) stava per infilzarlo come uno spiedino, Francesca gli si parò davanti per salvarlo ma il marito li finì entrambi. Questi i fatti.

  Lungi da me banalizzare questo tragico e vero accadimento, che rappresenta uno dei passi più alti della letteratura dantesca, e che turbò il Sommo Poeta al punto da fargli scrivere, alla fine del Canto:
“…sì che di pietade io venni men così com’io morisse; e caddi come corpo morto cade”.

  Ripercorrendo la storia dei due, però, bisogna ammettere che sfighe così son davvero rare.

  Francesca sposa Paolo, e fin qui tutto bene.
  Finito il pranzo di nozze, consegnate le bomboniere, bevuto l’ultimo grappino e fumata l’ultima sigaretta, gli ospiti cominciano a levar le tende. E anche fin qui nulla di anomalo.
   Dopo aver strizzato maliziosamente l’occhio a Paolo (che essendo anche soprannominato il bello, è facile immaginare come l’attizzasse) Francesca decide di ritirarsi nei suoi appartamenti, a prepararsi per la tanto agognata prima notte di nozze.
 Uscita dalla stanza da bagno in guepiere, perizoma e tacchi a spillo, chi si trova davanti? Giangiotto, il fratello di Paolo, uno scrondo inguardabile.
  Tentò di spiegargli che aveva sbagliato stanza, che doveva andarsene perché lei aveva impegni improcrastinabili.
  Niente da fare.
  Giangiotto, pantaloni alle caviglie, le svela che Paolo l’ha sposata solo per procura - a causa di un matrimonio in realtà combinato tra lui e il padre di lei -  ma che il beneficiario di tanta grazia era lui e che, di conseguenza, si sarebbe dovuta rassegnare: le avrebbe fatta la festa da lì ad un attimo.

  L’inizio, concorderete con me, non promette nulla di buono.

  Andiamo avanti.

  Il Paolo, che aveva possedimenti vicino casa della malcapitata, le faceva spesso visita.
  Gli giravano anche un po’ gli zibidei, per la verità, dal momento che lei era tanto bellina ma che a godere di cotanta grazia  era quello scorfano del fratello.
  Una visita oggi e l’altra domani, alla fine gli argomenti di conversazione si esauriscono.
  Senza televisione e nemmeno un cd di Ligabue, si sa che il tempo non passa mai.
  Cominciarono dunque a leggere libri, e con la lettura arrivarono camionate di guai che, come direbbe Woody Allen, sono come i fogli di carta igienica: ne prendi uno, ne vengono dieci.
  I due rimasero settimane a leggere libri su libri, uno più noioso dell’altro, senza che nessuno si curasse minimamente di loro.
  Giangiotto, quando non andava a Pesaro a fare il Podestà, se ne stava bello paciarotto in giardino a potare le rose, senza filarseli di pezza.
  Dopo tanta noia, finalmente i due trovarono un libro che prometteva bene: la storia di Ginevra e Lancillotto.
  Roba che scotta, pensarono!
  Francesca cominciò a leggere la storia di questi due arditi amanti e l’atmosfera si scaldò davvero.

  Paolo, per la verità, era anche un po’ imbarazzato dalla situazione, perché lei era pur sempre sua cognata, ma, come dice Benigni, quando l’acqua bolle bisogna buttar giù la pasta!
  Dal pensiero all’azione, quando si tratta di certi argomenti, intercorre lo spazio di un attimo e scattano, inevitabilmente, i primi approcci: facendo  finta di stiracchiarsi, Paolo alza le braccia sfiorando le spalle di lei, fischiettando distrattamente e guardando il soffitto.
  Lei nemmeno una piega e lui,  provolone ormai ingrifato, torna nuovamente alla carica.
  Si china ad allacciarsi i mocassini  (che, essendo mocassini, è risaputo non abbiano lacci) e, tirandosi su, le sfiora la caviglia.
  Nulla.
  Finalmente, dopo due ore di un cinematografo del genere, tra i due si accende la scintilla della passione:
  prendendo il  coraggio a quattro mani si guardano negli occhi…
  ... si avvicinano piano…
  ... si ritraggono…
  ... si riavvicinano…
  ... chiudono gli occhi…
  ... le labbra tremanti si schiudono…
  ... stanno per baciarsi… e…
SBATATAPAAAMMM!!! La porta si spalanca e irrompe il Giangiotto su tutte le furie.
  Ma porca miseria!!
  Proprio sul più bello!
  Non poteva starsene altri dieci minuti ad innaffiare i fagiolini ?
 
  Neanche il tempo di una palpatina o di un pezzettino di lingua piccolo così, che gli sventurati vengono passati a fil di spada ed eliminati dalla faccia della terra.
 
  Una volta morti, Dante che fa?
  Non li fa sprofondare tra le fiamme dell’inferno a bruciacchiarsi le chiappe per l’eternità, macchiati da un peccato gravissimo?
   Non in un girone qualsiasi, bensì in quello dei lussuriosi!
   Che esagerazione!

 Con una sfiga del genere ci sarebbe voluto almeno un premio di consolazione, altro che inferno!
 Se proprio non vuoi mandarli in Paradiso, che sembra brutto, falli  almeno girare per il Purgatorio ‘sti poveracci, che li un posticino per inguattarsi lo si trova sempre!
Un minimo di umanità ci vuole, e che diamine!
 
  A questo punto mi chiedo: se il Sommo avesse visto me e la mia “Francesca” baciarci, con tutti gli annessi e connessi, dove ci avrebbe sbattuto?
  Secondo me avrebbe dovuto mandare Lucifero a fare l’amministratore di qualche condominio di periferia e ci avrebbe dovuto nominare  Presidente e Amministratore Delegato di tutto l’ambaradan, ad aeternum.
 
  Al solo pensiero di cosa succedeva quando entravamo in “contatto”, gli ormoni (quei pochi che mi restano, ormai) si preparano per un rave party non stop di una settimana.

  Stare con lei, da questo punto di vista, era come stare aggrappati al tappo di una bottiglia di champagne, pronti ad essere catapultati in aria dalla pressione delle bollicine.
  Lei era impetuosa come la cavalcata delle valchirie, dolce come un notturno di Chopin, intrigante come un assolo di Mark Knopfler, travolgente come un pezzo dei Van Halen, magica come una raccolta dei Pink Floyd.

 Era passione allo stato puro.

  Molte volte mi sono chiesto cosa sia davvero la passione.
  Se sia il propulsore di ogni sentimento o se sia, piuttosto, qualcosa di effimero, un falò che brucia in fretta, violentemente ed intensamente, lasciando, alla fine, solo un cumulo di cenere.

  A volte ci si illude che la passione sia l’unica cosa che vada ricercata, credendo che in realtà racchiuda già tutto in se stessa.
  Si pensa che la passione, per sua stessa natura, possa e debba andare oltre la ragione, il raziocinio, e che sia il vero motore della vita.
  Non ci si sofferma a pensare che forse, come sosteneva Gibran, ragione e passione sono timone e vela della nostra anima navigante.
   Passione e raziocinio. Elementi apparentemente contrapposti, facce diverse della stessa  medaglia, perché la passione è il moto dell’istinto, parte dalle viscere e risponde quasi alla nostra primordialità, mentre la ragione ci riporta cinicamente con i piedi per terra, castrando le nostre passioni, immolandole sull’altare delle umane cose, barattandole con ciò che, razionalmente, si ritiene sia più “produttivo” per il nostro cammino terreno.
   Chi invece si ostina a credere, come chi scrive, che siano le passioni a far vivere davvero ogni essere umano, spesso si ritrova, soprattutto alla fine, prigioniero di quella passione che gli ha trasformato l’esistenza, dannandolo come Paolo e Francesca.
  Vive nostalgicamente di essa, dei suoi ricordi, della sua magia e, malgrado tutto, non è disposto ad immolarla su nessun altare.
  Si lascia travolgere da ciò che in quel momento ritiene essere l’unica cosa appagante, e nient’altro riesce a distoglierne  l’attenzione.
  Si nutre della propria passione, quasi egoisticamente, senza preoccuparsi di cosa succederà dopo, senza nemmeno rendersi conto che ci sarà un poi.
  In quei momenti, non si riesce a realizzare che in realtà la passione è una tempesta che sta travolgendo e spazzando via la nostra capacità di elaborare, razionalmente, cosa succederà domani.
  Quando quel domani arriva, ci coglie impreparati e non si sa cosa fare, non si sa come reagire. Nemmeno il tempo di capire, e quel domani è già diventato ieri.
  Si resta frastornati, inebetiti, e non rimane che appoggiarsi tristemente allo stipite della porta, a guardare quella stanza ormai vuota, e a farsi assalire dallo sgomento per qualcosa e qualcuno che sentiamo ancora nostro, ma che non c’è più.
 Appoggiati, ad ascoltare un silenzio cupo e assordante, che satura l’aria.
 Ad aspettare che i ricordi arrivino spietati, inesorabili.
 A guardare come si sovrappongono cinicamente uno all’altro, inarrestabili.
 A lasciare, inermi, che si avvinghino addosso togliendo il respiro, trafiggendo le emozioni, prosciugando le vene.
    
       “… è così breve l’amore, ed è sì lungo l’oblio”   (P. Neruda)

mercoledì 27 ottobre 2010

Il voto di Lucia... (capitolo 2)

Ho sempre tentato.
Ho sempre fallito.
Non discutere.
Prova ancora.
Fallisci ancora.
Fallisci meglio.
(S. Beckett)

  
Cos’è la caparbietà, in amore?
   Racchiude un sé una positiva tenacia o rappresenta, piuttosto,  una meno sana pervicacia?
   E’ meglio affrontare le avversità della vita, con la convinzione che prima o poi le si supereranno e si potranno finalmente raccogliere i frutti di tanta tenacia o, dopo qualche tentativo, sarebbe meglio gettare la spugna sapendo che tanto sarà sempre una lotta contro i mulini a vento?
  Poi, nel momento in cui si decide di perseverare in una relazione, chi garantisce che dopo aver rivoltato il mondo, dopo aver affrontato ogni asperità immaginabile, alla fine si raccolgano davvero i frutti di tanta fatica?

 Prendiamo come esempio la storia a tutti nota di Renzo e Lucia, partendo, per una volta, dalla fine.

  Dopo mille peripezie e disavventure di ogni tipo, finalmente Renzo si ritrova di fronte a Lucia.
  Era ora.
  Credeva che ormai fosse tutto finito, che ogni affanno affrontato negli ultimi anni sarebbe diventato solo un ricordo.
  Non immaginava che in realtà c’era un’ultima, rilevantissima sorpresa .
  Lucia lo guardò con gli occhi tristi e rassegnati: ho fatto un voto di castità e non ci possiamo più sposare, mi dispiace.
 
  Renzo a quella notizia trasecolò:
  Cooooooooosaaaaaa???
  Tutto questo calvario per niente???
  Trentotto capitoli sani sani e tre chili di carta per andare in bianco???
  E no!!!

  E’ facile immaginare come il Tramaglino fosse fuori dalla grazia di Dio, e da quella di tutti i santi del paradiso.

  Esce di corsa dal lazzaretto dov’era con Lucia, si precipita a casa Manzoni, entra buttando giù la porta e, senza farsi nemmeno  annunciare, lo affronta a muso duro:

  “Intanto via quella bottiglia di whisky, perchè quando bevi scrivi delle cazzate inenarrabili.
  Hai iniziato a rendermi la vita impossibile già da un tot di anni:
  con tutti i curati che c’erano a disposizione, l’unico cacasotto, che basta fargli “bu!” e gli viene un colpo apoplettico, lo hai affibbiato a noi.
  Poi ti inventi Don Rodrigo, che potrebbe avere tutte le donne che vuole ma lo fai incaponire per la mia Lucia la quale, peraltro, non è meglio di tante, in paese: c’è ad esempio la Evelina, la figlia del materassaio, che non è niente male ed è anche un po’ cosciallegra. No, per forza Lucia.
  Cerco un avvocato per tentare di risolvere la questione in modo civile e legale, e mi appioppi quel demente dell’Azzeccagarbugli, il quale è ancora lì a spolparsi gli ultimi ossicini dei capponi che gli ho portato, alla faccia mia.
  Mi fai capitare a Milano durante una sommossa, dove vola di tutto tranne pane che, visti i digiuni che mi son toccati, lo avrei anche gradito. Non pago, mi fai arrestare facendomi scambiare per uno dei capi della rivolta!
  Me ne hai fatte capitare d’ogni.
  Mancava solo che ogni mattina, uscendo da casa, un piccione mi evacuasse in testa augurandomi buona giornata.
  Alla fine di tutta questa via crucis, hai deciso pure di  chiamare il libro “Fermo e Lucia”.
  Fermo???
  Ma come ti è venuto in mente di chiamarmi Fermo se non hai fatto altro che farmi girovagare in lungo e in largo per tutta la padania, come un rappresentante di aspirapolvere. Nemmeno Bossi e suo figlio il “trota”, in piena campagna elettorale, hanno mai macinato  tanti chilometri!
  Non contento, hai riscritto questa storia tre volte e, con il pretesto della revisione linguistica, in ogni versione hai continuato a complicare l’esistenza mia e di quella sventurata di Lucia, che neanche le dieci piaghe d’Egitto.
  Le hai fatto pure venire la peste.   
  Mi chiedo: ma che razza di uomo sei?
  Non ti sembrava di aver fatto già abbastanza?
  No. Ci voleva la ciliegina sulla torta, il tocco finale, l’ultima pennellata dell’artista: il voto di Lucia.
  Ma bravo, complimenti!
  Bell’alzata d’ingegno che hai avuto!
  Ora, guardami negli occhi e ascolta bene, “scrittore”: Visto che non siamo stati noi a cercare te, ma viceversa, prendi seduta stante la tua bella pennina, la intingi in quel calamaio e riscrivi questa storia alla velocità della luce. E senza bere, stavolta!
  Voglio venirti incontro: se proprio non vuoi riscriverla tutta per la quarta volta, altrimenti si fa notte, sbrigati ad aggiustare almeno quest’ultima parte.
  Hai il tempo che mi separa da questa casa a dov’è Lucia, per inventarti qualcosa. Fa in modo che sia qualcosa di convincente, se non vuoi che ti stronchi la carriera e ti riduca ad un fermacarte.”

  E così, ritornato da Lucia, Fra Cristoforo scioglie quest’ultima dal voto di castità e i due possono finalmente coronare il loro sogno d’amore.
  Alla fine, quindi, la tenacia di Renzo ha prodotto i giusti risultati.

  Sarebbe bello se ognuno avesse la possibilità di far riscrivere, al pari di Renzo, la propria storia nelle parti che si vorrebbero diverse.
  Ma non siamo personaggi di un romanzo, e non possiamo far riscrivere ad altri una storia che abbiamo vergato con la nostra stessa mano.

A volte, rileggendo la propria storia, non si è soddisfatti e  si vorrebbe fare di tutto perché abbia un  finale diverso.
Si rilegge quella storia una, due, mille volte, ma a quell’epilogo  non ci si riesce a rassegnare.
Da ciò scaturisce non più la tenacia di Renzo,  necessaria per  portare avanti un progetto aperto, mettendo a punto, ogni volta che serve,  il motore di una macchina che ancora cammina.
 Subentra piuttosto la pervicacia, che spinge a cercare  a tutti i costi la soluzione ad una storia alla quale, però, è stato già messo il punto finale. Subentra l’ostinazione a voler revisionare il motore di una macchina che ormai si è già fermata e che, malgrado tutti gli sforzi, ha deciso di non voler più procedere.
 In quella pervicacia si perde di vista la cosa più importante, che è il motivo vero che ha generato quel finale.
Difficilmente si ricercano le colpe in se stessi, perché è scomodo scrutarsi nel profondo e scoprire di essere gli artefici dello stesso male che ci affligge.
E’ difficile e scomodo scoprire che siamo noi, e nessun altro, i responsabili del nostro ennesimo fallimento.
Quando ci si rende conto che un altro amore se ne sta andando, come tutti gli altri prima e per gli stessi motivi di sempre, allora pervicacemente si tenta di riavvolgere il nastro del tempo per riguardare alla moviola quella storia, tentando di cancellare la parte che non va, con l’illusione di poterla sostituire con una che, col senno di poi, si ritiene migliore.
A quel punto, ogni passaggio di quella storia si ripropone nei minimi particolari.
 Tutto ciò che prima sembrava solo un dettaglio senza importanza, ecco che invece compare in tutta la sua imponenza. Si scopre che ogni dettaglio è un sassolino che nel tempo si è sommato ad un altro, e ad un altro ancora, fino a diventare una muraglia contro la quale ci si impatta violentemente. E’ un impatto che fa deragliare non solo una storia d’amore, ma anche i sogni, le aspettative,  la vita stessa.
Ogni tentativo di recupero diventa inutile: quell’amore ormai è via, e non resta che il nostro fallimento.
Ancora uno.
Fino al prossimo.