Nel 2010, a distanza di tredici anni dalla sua nascita in America, non ho ancora esattamente capito cosa sia un blog.
D’altronde, chi mi conosce bene sa che, al pari di Woody Allen, ho un rapporto catastrofico con la tecnologia: se passo sotto ad un lampadario a gocce, si mette a piovere.
Mi si dice che il blog è una sorta di diario online, dove “postare” i propri pensieri, opinioni, riflessioni, considerazioni ed altro.
Mi si dice inoltre che tutto ciò può essere captato, letto, commentato e condiviso da chiunque voglia farlo, in qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi giorno dell’anno e a qualunque ora. Un movimento incredibile, sembrerebbe!

Questo blog sarà quindi un esperimento, oltre che un divertissement.

Se fra qualche mese sarò ancora qui da solo a lucidare l’argenteria in attesa di ospiti, vorrà dire che non ho capito un piffero e non mi resterà che tornare alla mia vecchia, cara “lettera 32”
.



mercoledì 27 ottobre 2010

Il voto di Lucia... (capitolo 2)

Ho sempre tentato.
Ho sempre fallito.
Non discutere.
Prova ancora.
Fallisci ancora.
Fallisci meglio.
(S. Beckett)

  
Cos’è la caparbietà, in amore?
   Racchiude un sé una positiva tenacia o rappresenta, piuttosto,  una meno sana pervicacia?
   E’ meglio affrontare le avversità della vita, con la convinzione che prima o poi le si supereranno e si potranno finalmente raccogliere i frutti di tanta tenacia o, dopo qualche tentativo, sarebbe meglio gettare la spugna sapendo che tanto sarà sempre una lotta contro i mulini a vento?
  Poi, nel momento in cui si decide di perseverare in una relazione, chi garantisce che dopo aver rivoltato il mondo, dopo aver affrontato ogni asperità immaginabile, alla fine si raccolgano davvero i frutti di tanta fatica?

 Prendiamo come esempio la storia a tutti nota di Renzo e Lucia, partendo, per una volta, dalla fine.

  Dopo mille peripezie e disavventure di ogni tipo, finalmente Renzo si ritrova di fronte a Lucia.
  Era ora.
  Credeva che ormai fosse tutto finito, che ogni affanno affrontato negli ultimi anni sarebbe diventato solo un ricordo.
  Non immaginava che in realtà c’era un’ultima, rilevantissima sorpresa .
  Lucia lo guardò con gli occhi tristi e rassegnati: ho fatto un voto di castità e non ci possiamo più sposare, mi dispiace.
 
  Renzo a quella notizia trasecolò:
  Cooooooooosaaaaaa???
  Tutto questo calvario per niente???
  Trentotto capitoli sani sani e tre chili di carta per andare in bianco???
  E no!!!

  E’ facile immaginare come il Tramaglino fosse fuori dalla grazia di Dio, e da quella di tutti i santi del paradiso.

  Esce di corsa dal lazzaretto dov’era con Lucia, si precipita a casa Manzoni, entra buttando giù la porta e, senza farsi nemmeno  annunciare, lo affronta a muso duro:

  “Intanto via quella bottiglia di whisky, perchè quando bevi scrivi delle cazzate inenarrabili.
  Hai iniziato a rendermi la vita impossibile già da un tot di anni:
  con tutti i curati che c’erano a disposizione, l’unico cacasotto, che basta fargli “bu!” e gli viene un colpo apoplettico, lo hai affibbiato a noi.
  Poi ti inventi Don Rodrigo, che potrebbe avere tutte le donne che vuole ma lo fai incaponire per la mia Lucia la quale, peraltro, non è meglio di tante, in paese: c’è ad esempio la Evelina, la figlia del materassaio, che non è niente male ed è anche un po’ cosciallegra. No, per forza Lucia.
  Cerco un avvocato per tentare di risolvere la questione in modo civile e legale, e mi appioppi quel demente dell’Azzeccagarbugli, il quale è ancora lì a spolparsi gli ultimi ossicini dei capponi che gli ho portato, alla faccia mia.
  Mi fai capitare a Milano durante una sommossa, dove vola di tutto tranne pane che, visti i digiuni che mi son toccati, lo avrei anche gradito. Non pago, mi fai arrestare facendomi scambiare per uno dei capi della rivolta!
  Me ne hai fatte capitare d’ogni.
  Mancava solo che ogni mattina, uscendo da casa, un piccione mi evacuasse in testa augurandomi buona giornata.
  Alla fine di tutta questa via crucis, hai deciso pure di  chiamare il libro “Fermo e Lucia”.
  Fermo???
  Ma come ti è venuto in mente di chiamarmi Fermo se non hai fatto altro che farmi girovagare in lungo e in largo per tutta la padania, come un rappresentante di aspirapolvere. Nemmeno Bossi e suo figlio il “trota”, in piena campagna elettorale, hanno mai macinato  tanti chilometri!
  Non contento, hai riscritto questa storia tre volte e, con il pretesto della revisione linguistica, in ogni versione hai continuato a complicare l’esistenza mia e di quella sventurata di Lucia, che neanche le dieci piaghe d’Egitto.
  Le hai fatto pure venire la peste.   
  Mi chiedo: ma che razza di uomo sei?
  Non ti sembrava di aver fatto già abbastanza?
  No. Ci voleva la ciliegina sulla torta, il tocco finale, l’ultima pennellata dell’artista: il voto di Lucia.
  Ma bravo, complimenti!
  Bell’alzata d’ingegno che hai avuto!
  Ora, guardami negli occhi e ascolta bene, “scrittore”: Visto che non siamo stati noi a cercare te, ma viceversa, prendi seduta stante la tua bella pennina, la intingi in quel calamaio e riscrivi questa storia alla velocità della luce. E senza bere, stavolta!
  Voglio venirti incontro: se proprio non vuoi riscriverla tutta per la quarta volta, altrimenti si fa notte, sbrigati ad aggiustare almeno quest’ultima parte.
  Hai il tempo che mi separa da questa casa a dov’è Lucia, per inventarti qualcosa. Fa in modo che sia qualcosa di convincente, se non vuoi che ti stronchi la carriera e ti riduca ad un fermacarte.”

  E così, ritornato da Lucia, Fra Cristoforo scioglie quest’ultima dal voto di castità e i due possono finalmente coronare il loro sogno d’amore.
  Alla fine, quindi, la tenacia di Renzo ha prodotto i giusti risultati.

  Sarebbe bello se ognuno avesse la possibilità di far riscrivere, al pari di Renzo, la propria storia nelle parti che si vorrebbero diverse.
  Ma non siamo personaggi di un romanzo, e non possiamo far riscrivere ad altri una storia che abbiamo vergato con la nostra stessa mano.

A volte, rileggendo la propria storia, non si è soddisfatti e  si vorrebbe fare di tutto perché abbia un  finale diverso.
Si rilegge quella storia una, due, mille volte, ma a quell’epilogo  non ci si riesce a rassegnare.
Da ciò scaturisce non più la tenacia di Renzo,  necessaria per  portare avanti un progetto aperto, mettendo a punto, ogni volta che serve,  il motore di una macchina che ancora cammina.
 Subentra piuttosto la pervicacia, che spinge a cercare  a tutti i costi la soluzione ad una storia alla quale, però, è stato già messo il punto finale. Subentra l’ostinazione a voler revisionare il motore di una macchina che ormai si è già fermata e che, malgrado tutti gli sforzi, ha deciso di non voler più procedere.
 In quella pervicacia si perde di vista la cosa più importante, che è il motivo vero che ha generato quel finale.
Difficilmente si ricercano le colpe in se stessi, perché è scomodo scrutarsi nel profondo e scoprire di essere gli artefici dello stesso male che ci affligge.
E’ difficile e scomodo scoprire che siamo noi, e nessun altro, i responsabili del nostro ennesimo fallimento.
Quando ci si rende conto che un altro amore se ne sta andando, come tutti gli altri prima e per gli stessi motivi di sempre, allora pervicacemente si tenta di riavvolgere il nastro del tempo per riguardare alla moviola quella storia, tentando di cancellare la parte che non va, con l’illusione di poterla sostituire con una che, col senno di poi, si ritiene migliore.
A quel punto, ogni passaggio di quella storia si ripropone nei minimi particolari.
 Tutto ciò che prima sembrava solo un dettaglio senza importanza, ecco che invece compare in tutta la sua imponenza. Si scopre che ogni dettaglio è un sassolino che nel tempo si è sommato ad un altro, e ad un altro ancora, fino a diventare una muraglia contro la quale ci si impatta violentemente. E’ un impatto che fa deragliare non solo una storia d’amore, ma anche i sogni, le aspettative,  la vita stessa.
Ogni tentativo di recupero diventa inutile: quell’amore ormai è via, e non resta che il nostro fallimento.
Ancora uno.
Fino al prossimo.

mercoledì 20 ottobre 2010

Se Laura... (capitolo 1)

George Byron diceva: “Se Laura fosse stata la moglie del Petrarca, pensate che lui avrebbe scritto sonetti per tutta la vita?”
  A noi restano i suoi scritti, d’accordo, ma andatelo a chiedere al Petrarca, cosa avrebbe preferito!
  Mi par di vedere questo pover’uomo passare tutta la vita a ciondolare da una sedia all’altra sospirarando il nome di lei, a consumarsi d’amore, a scrivere fiumi di parole, chilometrate di lettere, un intero Canzoniere, a martoriarsi il cervello sbattendo la testa contro il muro, per capire cosa escogitare per conquistarla.
  E lei, Laura?
  Niente. Nisba.
  Come se non bastasse, Lui continuò imperterrito a scriverle sonetti  -  ben centotre, mica uno! – anche dopo la morte di lei.
  Se considerate che Petrarca morì  nel 1374 e incontrò Laura per la prima volta nel 1327, il calcolo è presto fatto: questo poveretto si è massacrato l’esistenza per ben 47 anni, mica chiacchiere!
 
  Molto meglio sarebbe stato, secondo me, andare da lei e dirle:

“Senti Cocca, qua bisogna prendere provvedimenti: è da quando ti ho vista la prima volta che non ho pace e non dormo più la notte. Ogni qualvolta ti incontro balbetto come un deficiente. Arrivare a casa diventa sistematicamente un’impresa titanica perché, tanto son rapito dal pensiero tuo, non ricordo più la strada ritrovandomi ogni volta a Grosseto invece che ad Arezzo, dove vivo. A fare avanti e indietro ho i piedi gonfi come canotti, e non si riesce a trovare un taxi nemmeno a pagarlo una paccata di sonetti. Ieri sera ho pure rischiato di essere arrestato per vagabondaggio. Una faticaccia, credimi. Concediti e  facciamola finita!”

  Macchè!
  Lui zitto e giù a scrivere.

  A distanza di secoli è ancora lì che scrive, tanto che nell’aldilà  hanno dovuto varare una manovra correttiva alla finanziaria per comprargli vagonate di carta, penne e calamai, che non si sa più dove metterli. Hanno persino  dovuto riscrivere il Piano Regolatore, per prevedere ettari di capannoni necessari ad infilarci i suoi papiri.
  Di tanto in tanto Lui rincontra Laura, continua a balbettare come un deficiente e a non trovare la strada di casa, ma lei niente. Nemmeno un caffè in piedi.

  Aveva proprio ragione Oscar Wilde, quando diceva che il mistero dell’amore è più grande del mistero della morte!
 
  Non sono il Petrarca, evidentemente, e ogni paragone sarebbe a dir poco blasfemo.
  Se me lo concedete, però, io un po’ più fortunato di Lui lo sono stato, e per almeno due ragioni.
  Intanto non so se Laura fosse, esteticamente parlando,  tutto questo granchè. Invece la mia “Laura”, ragazzi miei, era certamente da urlo.
  E poi io, almeno, sono stato corrisposto per un po’, non mi sono angustiato il cervello per nulla, per un’idea e basta!
  Voi starete pensando, però, che se sono qui a riempire queste pagine è perché sì sono stato corrisposto, ma poi sono anche stato mollato, altrimenti che ci starei a fare?
  Giusto.
  Siete crudeli a ricordarmelo, ma è giusto. Avete ragione.
  E allora?
  Perché, voi non siete mai stati mollati??
  Faccio due conti: l’ho conosciuta oltre cinque anni fa e mi ha mollato da qualche mese. Vista la tranvata che ho preso e se i conti sono esatti, occhio e croce fra 41 anni, 6 mesi, tre o quattro giorni e una manciata di minuti, il Guinness dei Primati per la pena d’amore più lunga sarà mio, alla faccia del Petrarca. Per l'aldilà, vedremo.
  Tutti i segnali, d’altronde, indicano questa direzione.
  Oddio, se proprio devo dirla tutta farei volentieri a meno di vincere questo primato, ma tant’è. Bisogna accontentarsi di quello che la vita dà.
  E La vita a me ha dato molto, per la verità.
  Aver conosciuto la mia “Laura”, aver potuto vivere i suoi occhi, i suoi sorrisi, l’aver potuto asciugare le sue lacrime, l’essermi potuto nutrire dei suoi sospiri, inebriare del suo profumo, perdere nel suono della sua voce, è stato il dono più prezioso in assoluto.
  Ripercorrere le emozioni, le sensazioni, i ricordi di un amore così importante, poi, dovrebbe essere per tutti un momento per fermarsi un po’ e cercare di capire.
  A volte si trascura di farlo, presi come si è ad inseguire affannosamente qualcosa che non esiste, se non nella nostra immaginazione.
  E’ importante fermarci. Per capire come mai spesso abbiamo tra le dita ciò che cerchiamo da sempre, ma i nostri occhi continuano comunque a volgersi verso l’orizzonte, a perdersi nell’infinito. Guardano sempre altrove senza mai posarsi giù, dove invece scoprirebbero che ciò che stiamo cercando è lì, ed è già nostro.
  Le nostre dita si allentano distratte, e non ci accorgiamo che ciò che abbiamo di più prezioso ci sta scivolando via, ed allora lo avremo perso per sempre.
  Fermarsi è importante. Per comprendere che nella frenesia non si trova mai la pace, che nella spasmodica ricerca di qualcosa, alla fine, si dimentica  ciò che si stava realmente  cercando.
  Quando ci si rende conto di questo e ci si ferma, però, ormai si è soli.
 Soli, a leccarsi le ferite di una battaglia impari, perché è impossibile lottare contro la propria inettitudine e illudersi di poterla sconfiggere.